martedì 12 gennaio 2010

Un racconto di Natale

Guardava dall’oblo’ verso la pianura rossa e verde di ossidi che si stendeva come una crosta rugginosa davanti alla sua astronave. Nevicava, un pulviscolo rosa-cremisi freddo come l’acciaio di una lama soffiava tra le piante , tra le sfere di rame e le guglie di piombo. Si ricordava benissimo quando era stata l’ultima volta che aveva visto la neve, trenta anni prima sul pianeta Xerot. Da allora cercava sempre di spostarsi in zone della galassia dove non fosse inverno nel periodo natalizio, per non ricordare, per dormire, per non sognare. Ma la sfortuna lo aveva costretto a rimanere a Xerot, o forse no, forse senza ammetterlo lo aveva proprio voluto, aveva anzi persino sperato di rompere i giroscopi della astronave e non poter ripartire. Come fosse un liquore forte e pungente voleva assaporare per l’ultima volta il rimorso per l’omicidio del figlio, godere del supplizio del ricordo, ferirsi e centellinare il dolore come un vino potente, mescolare lacrime, singhiozzi, e piacere e brividi sulla pelle. A Natale, appunto. A Natale. Il Natale di tanto tempo fa, quando era iniziato il suo nuovo viaggio e quando era finito il viaggio precedente. Un discrimine, una frattura, un punto di non ritorno, ed era Natale. Ma era poi stata veramente colpa sua? Parlare di colpa o di buono o cattivo li’ su Xerot non aveva senso, un posto dove potevi essere ucciso per il colore delle tue unghie, o beatificato per il profumo dei tuoi vestiti. Ma li’ tutto era successo, ed adesso, con la neve fuori e la radio che vomita le musiche allegre e tristi di Natale la scena gli si riproponeva intatta, limpida ed angosciante: lui, suo figlio, il coltello, lo zucchero e la farina. Ma perche’ su quel cazzo di pianeta non esistevano i maiali o i traxedi o anche i parmiloni, degli animali insomma da cui prendere il sangue per i sanguinacci? Lui che colpa ne aveva se suo figlio era bello e grassoccio dalla pelle morbida e rossa con le carotidi cosi’ tenere e giovani che il coltello aveva reciso con molta facilita’. E come usciva allegro e esuberante il sangue, riempiendo il catino, raggrumando con lo zucchero, schiumando roseo come le onde dei mari di Yersolt, profumato come i fiori dei giardini pensili di Acapur.
Asciugo’ una lacrima con il dorso della mano, cosa provava? era il dolore dell’omicidio? Era il ricordo del sapore del sanguinaccio? Non riusciva a mettere a fuoco, a collimare i suoi pensieri. Stava facendo sera, la luna di ghisa stava varcando l’orizzonte e risplendeva dei riflessi giallo cromo dei bagliori dei fuochi tra la neve. Altri Natali si sarebbero susseguiti, aveva altri figli.

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