venerdì 6 agosto 2010

Sogno o son desto?

Il frastuono della citta’ che sta lentamente tornando a casa dopo una giornata lavorativa. Il sommarsi algebrico dei rumori di autovetture, treni, sistemi di ventilazione di diversi opifici, lo scalpiccio di migliaia di piedi, come un enorme e ramificato bruco, della folla che priva di apparente meta si affanna a consumare suole, fiato e a produrre sudori diversamente aromatizzati. Come la riproduzione contemporanea di numerosi sistemi sonori singolarmente discernibili, ma simultaneamente irriconoscibili in una tiepida melassa confusa. Un suono di una varieta’ ripugnante di untuoso ed appicicaticcio cacofonico sporco si spalmava e persisteva sul corpo e nelle orecchie di Marcel: come a volte alzandosi al mattino ci accoglie un motivo di qualche canzone che poi ci accompagnera’, volenti o nolenti, per buona parte della giornata, cosi’ questa sensazione indistinta di confusione sonora permaneva nella sua percezione anche adesso che, allontanatosi dal centro cittadino, stava salendo le prime strade che lo avrebbero condotto a casa, in una periferia nemmeno brutta e nemmeno tanto caotica. Aveva fretta, anche se non era in ritardo, era piuttosto una ansia anticipatoria, un desiderio coltivato per tutta la inutile e noiosa giornata lavorativa, fatto crescere e fertilizzato da periodiche immaginazioni preventive: ora ci penso un po’ ma non troppo e questo mi aumenta il desiderio, poi passo ad altro, magari lavoro per qualche decina di minuti poi ci penso di nuovo, e cosi’ via. Alimentato da un crescendo di interruzioni del soddisfacimento, il desiderio ormai lo sovrastava. Un veloce panino, un po’ di vino (che aiuta) e velocemente nel letto, dove la morbidezza del contatto tra guancia e cuscino lo rassicurava, cosi’ come la sensazione di assenza di peso che non e’ piu’ sostenuto da quella coppia di appendici inette ma besi’ da un largo, comodo materasso, assecondante ogni movimento, compiacente e silenzioso maggiordomo delle sue varie protuberanze carnee. Dopo breve il sonno e dopo poco il sogno. Lui, ma piu’ alto con una grande forza, che sulla strada per raggiungere il posto di lavoro devia per una strada secondaria a cui prima non dava importanza, ed ecco, dietro una casa anonima, un paesaggio come da fiaba: gatti su prati morbidissimi,ruscelli freschi rotolanti su pietre smeraldamente verdi di un muschio profumato.
Le sette, la sveglia. Come gia’ da qualche tempo, questa sua nuova e piacevole occupazione: ripetere cio’ che aveva visto (o vissuto?) la notte in sogno. E cosi’ prese la strada, individuo’ quella piccola laterale, vi svolto’, certo non era il paradiso che aveva visto in sogno ma ugualmente quel paesaggio suburbano aveva un che’ di misterioso, fosse vero o fosse solo una proiezione della sua volonta’ poco importava.
La notte successiva, era andato a letto alle otto, aveva sognato di nuotare nel mezzo di un lago circondato da gabbiani che lo guardavano incuriositi, molto grandi, con un occhio nero e riflettente come di ossidiana, questo basto’ affinche il giorno dopo prendesse un giorno di ferie, si recasse sul lago geograficamente prossimo alla sua abitazione, si spogliasse e, facendo il morto sulle acque fredde ma pulite , godesse della vista di diversi uccelli volteggianti sopra di lui, come araldi di un paese lontano che gli confermassero con la loro sola presenza la verita’ e la ricchezza di una terra remota e non citata dalle carte ufficiali. E cosi’ nei giorni seguenti Marcel andava replicando nella vita cosiddetta reale le fantasie oniriche della notte antecedente, ma chi poteva con certezza distinguere le due? Chi poteva arrogarsi l’imparzialita’ di giudizio per dire questo era vero e questo no? Dopo un mese di questo nuovo sport, Marcel vagava tra una visione di se nella veglia che ripeteva la visione di se nel sonno, l’una a rispecchiarsi nell’altra, un gioco di riflessi deformato e deformante, un vortice di richiami e rimandi , una apoteosi del detto comune che si interroga se sia stato generato prima l’uovo o l’uccello portatore della cloaca che lo depose.
Tutto questo fino a quel martedi’ sera quando Marcel sogno’ di volare, librandosi senza peso dal 20mo piano di un alto edificio nella parte moderna, adibita per lo piu’ ad uffici, della sua citta’, o meglio, al mercoledi’ mattina quando si chiari’ con evidente e sanguinolenta prova dove stava il falso e dove il vero. A meno che anche quello non fosse un sogno, Marcel non ne era proprio sicuro.

mercoledì 20 gennaio 2010

I miei cari genitori

Una storia come molte altre. Come ogni bambina, e per di piu’ figlia unica, ho vissuto i primi anni della mia vita in totale simbiosi con i miei genitori, loro una parte di me ed io una parte di loro. Nei piccoli umani la coscienza di se come di una parte autonoma si forma relativamente tardi, in questo periodo di interregno che va dalla nascita fino ai quattro, cinque anni esiste un unico corpo spirituale tra genitori e figli che a volte sembra anche essere materiale e fisico. Ecco forse era per questo che non mi sembrava strano che mamma e papa’ avessero sette coppie di arti. La loro voce a me sembrava la piu’ naturale del mondo e le ninne nanne cantatemi sulla culla le ricordo ancora con emozione, anche il suono metallico delle mandibole che grattavano sul primo paio di zampe lo ricordo con piacere, ed al loro fruscio io mi addormentavo. I primi giochi con gli altri bambini del condominio erano i soliti di tutti, giochi con la palla o a rincorrersi o a nascondino. Io ero la piu’ brava, abituata a scavare per trovare il cibo riuscivo a crearmi dei nascondigli perfetti, irragiungibili. Quelle calde giornate estive, durante le vacanze, le ricordo con una tenerezza infinita; alla sera il richiamo stridulo della mamma mi richiamava a casa ed esausta ma affamata mi avventavo sulle larve di mosca e di maggiolino che riempivano il piatto. Ma ogni bella stagione ha la sua fine ed ad ogni periodo lieto si sussegue una pausa triste. Cosi’ in me comincio’ a nascere un dubbio, ad insinuarsi malevolo nel mio cervello, alimentato da strani dicorsi dei miei compagni e da voci che ora comprendevo, dei vicini di casa. Cosa volevano dire quando indicavano i miei genitori con epiteti come “i mostri” o “gli insettoni”? perche’ i miei amici mi chiamavano “la larvetta”?. Non volevo rendermene conto ma anch io mi stavo convincendo che l’idillio infantile era finito e l’affacciarsi della consapevolezza portava con se delle dolorose novita’. Gli scrittori di fiabe non sanno il male che possono fare. O forse lo sanno, sono solo dei bambini cresciuti e vendicativi, che scrivono cose cattive per fare del male per turbare senza essere scoperti, altrimenti che senso avrebbero quelle storie di bambinbi abbandonati nei boschi di orchi che li mangiano e di genitori morti? Cosi’ dopo aver ascoltato certe storie di bambini abbandonati e di fratellastri e sorellastre mi ero fatta la convinzione di essere stata adottata e che le due meravigliose creature che fungevano da miei genitori non fossero in realta’ i miei papa’ e mamma biologici e veri. E cosi’ quella sera volli fare una prova, volevo sapere una volta per tutte se quello che sospettavo fosse tragicamente vero o felicemente falso. Non avevo ancora grosse conoscenze di biologia e quindio il mio approccio fu abbastanza grezzo, ma, come si vedra’, risolutivo.
Il giorno dopo. Distesa sul lettino d’ospedale ero felice. I medici mi avevano salvata in extremis, la sera prima mi avevano trovata nella mia stanza in una pozza di sangue, un polso del terzo paio di zampe reciso spruzzava il suo liquido sul pavimento, un liquido verde, verde, verde,.... oh grazie al cielo era verde!

lunedì 18 gennaio 2010

Marcel's wake

E se tutto quello che vedeva non fosse esistito veramente? E se il mondo, il suo appartamento, queste lenzuola aggrovigliate come i suoi intestini doloranti, se tutto questo fosse solo una rappresentazione della sua retina e dei suoi neuroni, una videocassetta di realta’ virtuale senza una sostanza reale? La cena abbondante non gli dava tregua, gioia effimera nel palato, ora dispiegava le sue orde tra le sue viscere. Avrebbe dovuto mangiare e bere meno, forse. Ma perche’, a quale fine? Perche privarsi di un piacere, di un qualsiasi piacere? Certo se poi dopo si sta cosi’ male forse e’ conveniente astenersi, ma solo se si pensa che la consequenzialita’ tra azione e reazione abbia un significato concreto, perche’ se tutto e’ falsita’ e sola rappresentazione allora il tutto perde di senso...Il lampadario, o meglio la sua ombra proiettata dalle luci notturne della strada ondeggiava sulla parete opposta al suo letto, forse automobili di passaggiaggio illuminavano a tratti la sua stanza o forse la sua testa danzava in un capogiro continuo. Conati. Sapori acidi gli riempivano le narici dal retro del palato risalendo tratti che sarebbero predisposti solo per la discesa dell’aria verso i polmoni di quella macchina meravigliosa che e’ il corpo umano; si ricordava delle sue prime interrogazioni a scuola la maestra, il sussidiario con le figure del corpo umano stilizzato, il colore innaturale della pelle , i caratteri larghi per facilitare la lettura dei piccoli alunni. Puzze e puzze e odori schifosi, ecco, l’odore delle cose e’ la migliore rappresentazione dei concetti spirituali, l’anima e’ qualcosa che non si vede e non si tocca, come l’odore: lo spirito e’ odore, i santi che sono ormai mezzi angeli sono “in odore”. Un ora, forse meno, di appisolamento, al risveglio il braccio destro insensibile per la posizione schiacciata assunta per troppo tempo. Buffo, gli sembra una appendice estranea al prorio corpo, e li’ tra spalla e braccio c’e’ il confine tra lui ed il resto, erroneamente trasportato da una postura errata. Forse anche nella vita e’ cosi? Forse anche normalmente il confine tra noi ed il mondo e’ dato da una insensibilita’ derivata dalla nostra strana posizione nel creato? Il mondo che ci circonda e’ come quel braccio ora insensibile, un enorme organo che ci appartiene ma che non avvertiamo come nostro per una errata pressione su di un nervo?
Le cozze, le verze e le rape fermentavano nel suo basso ventre, vapori mefitici salivano dalla geenna del basso intestino insinuandosi tra le pliche del crasso, riempendo la ampolla rettale e deflagrando caldo-umidi facendo tremare i bordi dell’ano. In parte le sue narici si riappropriavano di questa materia volatile e riproponevano, elaborati, gli odori del cibo. Poi un altro rutto, questa volta puro senza rigurgiti, poi un altro peto, meno puro, piu’ umido, e quindi il sonno profondo.

venerdì 15 gennaio 2010

Un agricoltore biologico

"La natura...., eh! che meraviglia, la Natura. Certo che ammirare un paesaggio cosi’ e’ di conforto per lo spirito ed anche per il corpo, che aria pulita si respira qua!".
Marcel pensava a questo mentre con lentezza voluta vangava il suo pezzetto d’orto tra le campagne della Borgogna. Dalla cima della sua collinetta poteva spingere lo sguardo verso il campanile della cattedrale e vedere anche dove il Nièvre si butta nella Loira. Il sudore gli colava in grossi goccioloni sul collo, rigandolo come ruscelletti veloci. Certo era faticoso vangare il terreno reso duro dalle scarse piogge della stagione, la terra si fendeva sotto il colpo della lama della vanga e tra i solchi, nel profondo, si intavvedeva il colore scuro e rossastro del concime, interrato qualche mese prima. Quest anno le carote sarebbero state da primo premio, avrebbero meritato un riconoscimento, sicuramente. Si era impegnato molto, aveva lavorato il terreno con pazienza e con amore. Aveva bandito da tempo ogni forma industriale di coltivazione, ormai usava solo prodotti naturali e la forza delle sue braccia. Tra un colpo di vanga ed un altro si immaginava gia’ al mercato la prossima estate, immaginava gia’ i colloqui con i clienti “ Monsieur Marcel, quest anno le carote sono un portento” ed immaginava gia’ le sue risposte falso-modeste” che vuole mai, quando c’e’ l’amore per il proprio lavoro...”. Quando la vanga colpiva qualche sasso o elemento piu’ duro Marcel si chinava, lo raccoglieva e lo metteva in disparte, per tenere pulito il terreno, la gente non si immagina cosa si puo’ trovare tra le zolle: un pettine, chiodi, cose perse anni prima...proprio in quel momento la vanga aveva colpito qualcosa di duro, uno strano oggetto della grossezza di un pugno, in metallo, molto lucido e non corroso, una sfera che si articolava con una coppetta, che Marcel raccolse e sposto’ su un lato del campo come i sassi, come i pezzi di ramo.
Passo’ la primavera. In estate, al mercato di Nevers la sua verdura era la piu’ bella, la piu’ colorata. Clienti vecchi e nuovi si avvicinavano al suo banchetto attratti dal rigoglio quasi innaturale delle sue mercanzie.”Complimenti monsieur Marcel, chissa’ come sarebbe contenta la sua povera signora se fosse ancora tra noi” cosi’ dialogavano i numerosi acquirenti e Marcel annuiva felice , indossando una maschera di leggera tristezza che i piu’ attenti scoprivano falsa. “Certo sembra essersi ripreso dal quel tragico inverno” pensavano, tastando le enormi cipolle ed accarezzando le foglie eccessivamente verdi delle carote “quando la sua povera moglie e’ sparita. Poverina...propio qualche giorno dopo essere tornata dall’ospedale dove era stata operata per la protesi all’anca”

giovedì 14 gennaio 2010

Il pensionato gourmet

Ogni giorno un po’ di noia per condire le sue lunghe giornate, le interminabili ore. Non un dolore fisico ad occupare il suo tempo, non una qualche preoccupazione banale: i soldi, la casa gli affetti... niente. Era pacificamente un pensionato senza nulla da fare.
Dopo una vita passata tra le pieghe di una grossa industria farmaceutica ora, nell’immaginario di molte persone, poteva godersi un riposo, certo non meritato in tanti anni di soporifico imboscamento, ma cosi era ed alla fine era riuscito anche lui ad arrivare alla pensione. Ma ora le giornate erano piu’ lunghe, non doveva nemmeno piu’ pensare ad arrivare in tempo al suo ufficio, era sempre in tempo. Sempre. Una vita senza amici, senza affetti, senza grosse aspettative erotiche; l’andropausa aveva portato in dote anche un assopimento delle sue gia’ scarse pulsioni sessuali.
E cosi’ per non dover sempre guardare l’orologio della parete del suo tinello, si era messo a cucinare. All’inizio gli piaceva . Poi aveva scoperto che traeva piacere piu' che altro dagli ingredienti nuovi che cucinava, ed era un piacere fine a se stesso, cucinava ma non mangiava quello che preparava, lo buttava. Cosi’ al mattino usciva per fare la spesa, acquistava verdure freschissime, pesci rari e pregiati, vini costosi, giunto a casa li preparava con una maestria insospettata, affondava le mani grassoccie nelle carni e nelle verdure provandone un brivido, spezzava pagnotte ed infilava le dita tra la mollica, svuotava vasetti di mamellate e caviali annusandoli, toccandoli. Poi cucinava il tutto, preparava i piatti che decorava con una inususale abilita’ e, con una piccola smorfia, gettava il tutto tra i rifiuti. Ma ogni giorno comprava ingredienti piu’ sofisticati, piu’ rari, illudendosi di ricevere qualche nuova sensazione, e cosi’ si era formata in lui quella convinzione strana: solo un cibo o meglio un tipo di carne gli rimaneva ancora da cucinare, qualcosa che pero’ non era disponibile al mercato o nei negozi piu’ specializzati. Quell’ingrediente doveva procurarselo da solo. Si’ sicuramente quello avrebbe fatto la differenza, avrebbe dato una spinta in piu’, un po’ di mordente alla monotonia della sua assuefazione a quella orgia di sapori, odori e consistenze. Quella nuova carne doveva procurarsela, ma come? Non la vendevano in macelleria, ne’ era disponibile in internet, avrebbe fatto da solo.
Verso sera, alle otto, una strana telefonata raggiunse un altro pensionato della stessa citta’, un invito a cena per il giorno dopo, ma guarda che strano, invitato da quel suo vecchio collega, quello timido e schivo. Per curiosita’ aveva accettato.
Dopo due giorni un osso dall’aspetto inusuale che spuntava da un saccheto dei rifiuti insospetti’ qualcuno dei vicini....

martedì 12 gennaio 2010

Un fiuto incredibile

Come ogni giorno al distretto della stazione di polizia del decimo arrondissement saluti e cortesia si intrecciavano all’ingresso principale. “Buongiorno” “ a lei” “prego” “dopo di lei”, un susseguirsi di tranquillizzanti convenevoli scandiva il passaggio degli addetti e dei gendarmi che si recavano al proprio ufficio. Come tutti gli esseri viventi anche quella ristretta umanita’ di Rue de Chabrol placava le sue ansie calmata dal metronomo lento delle consuetudini: i saluti, i croissant del Cafe’ L’Aubrac, le piccole noie di tutti i giorni ( il ritardo della metro’, la fotocopiatrice inceppata, un leggero mal di testa..).
Anche Marcel nel suo ufficio al secondo piano stava iniziando la sua monotona, uguale, polverosa e tranquilla giornata.
“Addetto all’annusamento reperti necroscopici” cosi’ recitava il cartellino in plastica posto sulla porta del suo ufficio, redatto in una calligrafia anonima, anzi un font anonimo, un times new roman, ulteriormente intristito dalla sbavatura di una stampante di scarsa qualita’. Un rigurgito (trattenuto da un innato rispetto sociale) gli riporto’ alla memoria la cena del giorno prima: zuppa di cavolo con pane e roquefort; di certo sua moglie non si era sprecata, ma era da capire aveva sempre molto da fare al lavoro, nella fabbrica di prodotti alimentari per cani, addetta alla macinazione.
Il lavoro di Marcel era ugualmente monotono: annusare reperti autoptici che in qualche modo avevano a che fare con casi giudiziari. Lui riusciva, con il suo fiuto incredibile, a risalire all’origine di quelle membra, in qualche modo riusciva a capire di chi potessero essere quei resti accostando odori, tessendo trame olfattive che inquadravano la provenienza di quelle frattaglie umane. Quella mattina non sembrava passare piu’, aveva gia’ annusato una mano trovata nella Senna e dal suo odore di tabacco e zenzero e sesso aveva indirizzato i colleghi verso il caso irrisolto di una prostituta cinese (fumatrice). Guardava fuori dalla finestra (qualche passante entrava e usciva dalla piccola orologeria di fianco alla stazione di polizia) proprio quando un fattorino gli porse qualcosa. “Bene” penso’ Marcel “vediamo un po’, anzi annusiamo un po’” Davanti a lui un cartoccio di carta racchiudeva come della carne macinata, ma di un colore scuro, nessun pezzo visivamente riconoscibile, solo minuti frammenti di carne , omogenea e tritata fine. Poteva riconoscere l’odore di spezie, aromatizzanti artificiali, caramello, e lontano, quasi impercettibile una curiosa associazione di cavolo e formaggio ammuffito. Quella miscela di carni proveniva dal vicino Hôpital Saint-Lazare dove, nella prima mattinata qualcuno aveva portato quel che rimaneva di un tragico incidente sul lavoro. Chissa’ cosa poteva essere....

Caro diario

Caro diario, oggi ho molto da raccontarti. Ma mi raccomando, come sempre custodisci i nostri segreti nel tuo scrigno di carta e velluto, non mostrare ad altri i distillati di cuore che trasudo sulle tue pagine. Oggi mi sento bella, sai, la sensazione di stare bene, fisicamente intendo. Stamattina mi sono infilata nei miei abiti con una piacevolezza sensuale, la sensazione tattile della stoffa sulla pelle, la sua frescura asciutta, il suono frusciante come quello di una mano passata sul crine di cavallo dell’archetto del violino, e poi lo specchio mi ha guardata, si’ lui mi guardava, anzi mi spiava e mi vedeva bella e felice. Perche’ sono cosi’ felice? E’pericoloso essere felici. E’ pericoloso salire troppo in alto sulle montagne, le montagne non sono fatte per essere scalate ma per essere ammirate, e cosi’ la felicita’: non va conquistata non va posseduta ma occorre ammirarla da distante, da una posizione sicura senza il rischio di precipitare nella disperazione piu’ cupa, meglio una sobria malinconia ed accontentarsi di immaginarsi felici. Ma oggi no, oggi svetto sulla cima della gioia e rido e piango e gemo e taccio, non so nemmeno io il perche’. Oh mio caro, caro, carissimo diario, tu lo sai il perche’. Gia’ ti avevo reso partecipe delle mie piccole gioie e dei miei grandi dolori, tu mi conosci, con te non posso fingere. Ieri sera mi ha detto di si’, ha rotto ogni indugio. E’ per questo che oggi mi faccio bella, e’ per stasera, quando lui verra’. Non so cosa faro’ dopo, non voglio nemmeno pensarlo, mi godo cosi’ queste poche ore che ci separano ancora. Come e’ bello e dolce e amaro struggersi nella attesa, una sensazione che parte da dentro allo stomaco e si irradia a tutto il corpo come un crampo leggero che passa su di me e lascia ogni mia fibra stanca ma felice, come la piacevolezza della stanchezza puramente fisica, o come anche l’abbandono ad un piccolo dolore immediatamente seguito dal sollievo della sua scomparsa. Ieri, quando me lo ha detto, ho visto brillare qualcosa nell’incavo delle sue vuote orbite, la’ dove di solito non vedevo altro che buio qualcosa riluceva, e anche il suo mantello, solitamente cosi’ nero e fermo, d’improvviso mi e’ sembrato quasi leggero e fresco, quasi meno scuro. Oh non vedo l’ora, sono ansiosa come una scolaretta il primo giorno di scuola! Stasera, stasera, stasera. Passera’ a prendermi lui, mi portera’ via con se, come lo desidero! Tutto mi piace di lui, mio caro diario, tutto. Anche la falce, cosi’ lucida, cosi’ potente. Stasera tutto comincera’, tutto sara’ compiuto.

Un racconto di Natale

Guardava dall’oblo’ verso la pianura rossa e verde di ossidi che si stendeva come una crosta rugginosa davanti alla sua astronave. Nevicava, un pulviscolo rosa-cremisi freddo come l’acciaio di una lama soffiava tra le piante , tra le sfere di rame e le guglie di piombo. Si ricordava benissimo quando era stata l’ultima volta che aveva visto la neve, trenta anni prima sul pianeta Xerot. Da allora cercava sempre di spostarsi in zone della galassia dove non fosse inverno nel periodo natalizio, per non ricordare, per dormire, per non sognare. Ma la sfortuna lo aveva costretto a rimanere a Xerot, o forse no, forse senza ammetterlo lo aveva proprio voluto, aveva anzi persino sperato di rompere i giroscopi della astronave e non poter ripartire. Come fosse un liquore forte e pungente voleva assaporare per l’ultima volta il rimorso per l’omicidio del figlio, godere del supplizio del ricordo, ferirsi e centellinare il dolore come un vino potente, mescolare lacrime, singhiozzi, e piacere e brividi sulla pelle. A Natale, appunto. A Natale. Il Natale di tanto tempo fa, quando era iniziato il suo nuovo viaggio e quando era finito il viaggio precedente. Un discrimine, una frattura, un punto di non ritorno, ed era Natale. Ma era poi stata veramente colpa sua? Parlare di colpa o di buono o cattivo li’ su Xerot non aveva senso, un posto dove potevi essere ucciso per il colore delle tue unghie, o beatificato per il profumo dei tuoi vestiti. Ma li’ tutto era successo, ed adesso, con la neve fuori e la radio che vomita le musiche allegre e tristi di Natale la scena gli si riproponeva intatta, limpida ed angosciante: lui, suo figlio, il coltello, lo zucchero e la farina. Ma perche’ su quel cazzo di pianeta non esistevano i maiali o i traxedi o anche i parmiloni, degli animali insomma da cui prendere il sangue per i sanguinacci? Lui che colpa ne aveva se suo figlio era bello e grassoccio dalla pelle morbida e rossa con le carotidi cosi’ tenere e giovani che il coltello aveva reciso con molta facilita’. E come usciva allegro e esuberante il sangue, riempiendo il catino, raggrumando con lo zucchero, schiumando roseo come le onde dei mari di Yersolt, profumato come i fiori dei giardini pensili di Acapur.
Asciugo’ una lacrima con il dorso della mano, cosa provava? era il dolore dell’omicidio? Era il ricordo del sapore del sanguinaccio? Non riusciva a mettere a fuoco, a collimare i suoi pensieri. Stava facendo sera, la luna di ghisa stava varcando l’orizzonte e risplendeva dei riflessi giallo cromo dei bagliori dei fuochi tra la neve. Altri Natali si sarebbero susseguiti, aveva altri figli.